Un’amica molto cara, che sostiene peraltro che dovrei scrivere molto più frequentemente da queste parti (anche perché meno frequentemente è difficile), si lamenta che a scuola della figlia Cartesio l’abbiano trattato in un’oretta scarsa di spiegazione e via, ricreazione, mi raccomando ragazzi che dopodomani interrogo.
Per quel poco che ricordo dall’epoca in cui al liceo ci andavo io, Cartesio l’abbiamo discusso per ore e ore in seconda (nel senso del quarto anno, mi tocca specificarlo per quelli troppo giovani per sapere che in un passato remoto è esistito il ginnasio), per poi riprenderlo di nuovo all’inizio dell’anno successivo e affrontare Kant. Però siccome i ricordi sono inaffidabili, ho fatto un rapido sondaggio tra i miei amici che insegnano filosofia a scuola (n=1, visto che l’altro è in aspettativa sindacale da anni, però oh, va bene che non è statisticamente rilevante, però è bravissima, quindi vale almeno triplo). Ecco, nel nostro campione statisticamente poco rilevante ma qualitativamente straordinario a Cartesio si dedicano due settimane abbondanti. Però senza la matematica.
Come, senza la matematica? Quell’uomo ha creato il ponte tra l’algebra e la geometria, aprendo la strada a tutto lo sviluppo scientifico e tecnologico dell’età moderna e contemporanea, e lo si spiega “senza” la matematica perché tanto poi ci pensa la collega quando fa la geometria analitica? Esattamente. E quindi anche Leibniz lo si può anche agevolmente saltare, tanto delle monadi e della teodicea onestamente si può fare a meno. Va bene, però Leibniz ha anche regalato all’umanità l’algebra lineare, il calcolo differenziale e il calcolo integrale. Non mi viene in mente assolutamente nulla del mondo contemporaneo, dal frigorifero al computer, dall’esplorazione spaziale ai vaccini, dall’elicottero alle previsioni del tempo, che non debba la sua esistenza alla matematica immaginata e codificata da Leibniz.
Il problema fondamentale è che la filosofia e la matematica, all’università, abitano solitamente in edifici ben distinti. Lettere di qua, matematica e fisica di là. Guai a mischiarle. E quindi chi diventerà professore di filosofia smette di fare matematica a diciott’anni, prima di entrare all’università (ecco un altro ricordo di liceo: una docente di matematica stremata, a pochi giorni dagli scrutini e dalla pensione, che dice a una mia compagna guarda, facciamo così, io la sufficienza te la metto, ma tu giuri solennemente davanti a tutti i tuoi compagni che ti iscrivi a lettere; e lei l’ha fatto, e forte del suo sei politico in matematica oggi insegna italiano e latino). Cosa siano il calcolo differenziale e il calcolo integrale, che senso abbiano rispetto alla comprensione del mondo, come permettano all’umano finito e limitato di manipolare infiniti e infinitesimi senza paura, non glielo ha mai spiegato nessuno. Possono insegnare l’infinito secondo Anassimandro, Plotino e Heidegger, possono cedere alle tentazioni pop e discutere il Nietsche da carta dei cioccolatini col suo abisso che se lo scruti troppo a lungo poi ti scruta a sua volta, ma dell’unico filosofo che ha costruito gli occhiali adatti per scrutare l’abisso e l’infinito senza danno agli occhi non si occupano, perché non ne hanno gli strumenti.
Altrettanto vale però al contrario: in Italia, ci si può laureare in ingegneria o in fisica senza avere neanche un esame di filosofia, storia o letteratura nel piano di studi. E quindi con una visione del mondo e delle cose limitata a quello che gli strumenti analitici e tecnici del giorno consentono. Con l’abilità di manipolare infiniti e infinitesimi, sì, però spesso senza la curiosità di chiedersi che senso abbiano, quegli infiniti e quegli infinitesimi, e perché esistano, e perché e per che cosa esistiamo, noi. Sappiamo produrre elicotteri e frigoriferi, ma non sappiamo immaginare quello che saremo o faremo tra quattrocento anni (più o meno il tempo storico che separa l’elicottero di Leonardo da Vinci, 1489, da quello di Enrico Forlanini, 1877).
Ecco, Leonardo le frontiere tra formazione umanistica e scientifica non le rispettava e probabilmente non le conosceva neanche. Ne avrebbe riso, forse. Il campus del Politecnico di Milano a lui dedicato, tuttora abbastanza simile a quando l’ho frequentato io nel Giurassico, ancora oggi continua a rinforzare le frontiere e a segregare gli orticelli: architetti di qua, ingegneri di là, in mezzo passa il tram, mischiarsi mai; quanto a gente ancora meno scientifica degli architetti come – dio ne liberi! – filosofi e letterati, beh, quelli non sono neanche ammessi, vadano altrove, ci sono ben due Statali e una Cattolica per loro, qui in giro anche no, grazie, ché siamo gente seria che lavora, qui, costruiamo cose che devono stare in piedi.
Chissà che paese potremmo diventare se proponessimo agli ingegneri di andare a dare un esame a lettere, anche uno solo, e ai filosofi di fare uno sforzo e cercare di capire concetti matematici di una bellezza così assoluta e abissale.
