Il triangolo scaleno

Ci stiamo preoccupando tutti, e in tutto il mondo, intorno al dramma psicologico dei dazi statunitensi. Giusto: gli impatti nella vita quotidiana di miliardi di persone potrebbero essere molto significativi – perfino devastanti.

Il problema, però, è che fare previsioni ha poco senso. Intanto perché appena viene sfornata una previsione, anche da fonti più che autorevoli, nel frattempo la realtà è cambiata come l’umore di chi questa realtà la crea e la dirige – probabilmente senza un vero progetto di fondo. E quindi: che succederà coi dazi? Che succederà in Italia? E la Cina? Anche il modello di calcolo più sofisticato, anche la matematica più sottile in presenza di input imprevedibili può solo prevedere l’imprevedibilità degli output.

Ieri l’ho dovuto spiegare al mio professore di tedesco, che continua a ignorare le mie ripetute richieste di evitare temi di politica e di economia a lezione. Guarda, Bernd, la situazione è più o meno questa. Tu mi vendi delle lezioni di lingua tedesca, ormai da quasi quindici anni. È come se ti dicessi che sono furibondo con te perché continui a vendermele senza però comprare da me neanche una copia di Meccanica di un addio, romanzo che peraltro non potresti neanche leggere perché l’italiano non lo sai. E quindi da ora in avanti ogni volta che ti pago X per una lezione, metto anche un altro 47% di X nella swear jar, finché non ti metti a comprare una copia di Meccanica di un addio per ciascuna lezione sulla declinazione degli aggettivi. (Nota: non è vero che ho una swear jar. È un concetto che usano alcune famiglie americane: ogni volta che un membro della famiglia dice una parolaccia, paga una multa mettendo dei soldi in un vaso di vetro ben visibile. Io penso onestamente che delle parole non si debba avere paura, e che è meglio imparare che le parolacce esistono, ma vanno usate nei contesti e nei modi giusti, invece che trasformarle in un inutile taboo. Ma questa è un’altra storia, e non mi andava di rovinare una metafora così appropriata con una banalità come l’aderenza alla mia personale realtà quotidiana). Ora: i soldi nella swear jar convinceranno Bernd a leggere un romanzo in una lingua che non parla? Convinceranno me a ridurre le lezioni di tedesco nonostante ne abbia oggettivamente bisogno? Probabilmente no. E la stessa cosa varrà per gran parte dei dazi in questione.

Mi viene difficile, quindi, appassionarmi al dibattito sui numeri esatti che verranno applicati, e quando: sarà il 20% con l’Unione Europea o il 10? Perché invece la Turchia soltanto il 10? Perché 47 col Madagascar e 49 con la Cambogia? Come fanno a fare la differenza tra il 31% della Svizzera e il 37% del Liechtenstein che sta in unione doganale con la Svizzera stessa e che logisticamente può esportare soltanto via Svizzera o EU? San Marino 10%, e col Vaticano come la mettiamo? Il Camerun 11%, mentre la Nigeria 14% (al confine nord) e il Gabon e il Congo 10% (confine sud, però la Guinea Equatoriale 13%), ma applicati a che cosa esattamente? Le Falkland 41%, ma la madrepatria – il Regno Unito – soltanto il 10%, e se anche uno volesse chiamarle Malvinas e considerarle argentine, beh, è il 10% anche quello, no? Ma la Cina oggi ha i dazi al 34, al 104 o al 145%? E così via. Al massimo, è materiale utile per gli sketch in televisione e per i memes sui social network, ma di concreto, analizzabile, comprensibile c’è poco.

In un paese “protetto” da dazi aggressivi – il Brasile – io ci ho vissuto, e per ben undici anni. Il principale risultato, oltre ai prezzi elevati dei beni di consumo, è un’industria fiorente di traffichini che sanno aggirare, manipolare, piegare le regole dell’import/export, abili come funamboli e affidabili come spacciatori. Le imprese cinesi sanno già importare mercanzie in Brasile senza preoccuparsi troppo del costo della tabella applicata (le cui percentuali, lì, dipendono non solo dal paese ma soprattutto dal tipo di merce). Il trucco più ovvio è importare soltanto “componenti” per poi “assemblare” in Brasile: nel senso di aggiungere due viti, mettere un’etichetta e via, adesso il prodotto è Made in Brazil, evviva! Se poi uno passa dalla zona franca di Manaus – e non fisicamente, eh, bastano i documenti, suvvia – l’impatto tributario sarà ancora minore. Basterà quindi far passare le merci cinesi dal Brasile, per esempio, ed ecco che il 34 (o 104, o 145, fate voi) diventa il… 10%, perché il Brasile per qualche misterioso motivo è finito nella lista dei buoni. C’è finito anche il Perù, che peraltro sta sulla costa pacifica e quindi forse è pure più conveniente per costruire un triangolo con un vertice in un porto cinese, uno in un porto latinoamericano e uno in un porto statunitense. Peraltro, i porti latinoamericani controllati da imprese e investitori cinesi sono numerosi, sia sulla costa atlantica che sulla costa pacifica. Ora: se il triangolo scaleno è venuto in mente a me (che di mestiere scrivo romanzi e sceneggiature) in meno di una settimana, in quanti minuti sarà venuto in mente a un trader cinese?

Però ha senso pensare alle conseguenze di lungo termine, quale che sia la tabella esatta applicata oggi, domani o dopodomani. E sono quelle che mi preoccupano veramente.

Il primo dato su cui ragionare è la confusione stessa. L’incertezza è volatilità e la volatilità non solo segnala, ma soprattutto rinforza una possibile recessione. Se un investitore non sa cosa succederà domani, e deve scegliere dove investire una pila di soldi, poco importa se stiamo parlando di investimenti finanziari o industriali: aspetterà domani, e forse anche dopodomani, e nel frattempo la pila di soldi la terrà ferma e al sicuro. La somma di tanti domani incerti è l’inevitabile raffreddarsi dell’economia. Tutta. Mondiale. La tabella dei buoni e dei cattivi potrà anche essere stata “sospesa” per novanta giorni (ad oggi, 10 aprile, e non intendo certo aggiornare questo testo in continuazione) ma una parte del danno l’ha già fatto.

E qui c’è un secondo dato forse più preoccupante. L’intero ordine economico mondiale è fondato sul principio che del dollaro e degli Stati Uniti ci si può fidare. Da Bretton Woods in poi, ci abbiamo costruito sopra un equilibrio: difettoso, senz’altro, ma appunto un equilibrio. Il danno della tabellina dei dazi e dei toni (e numeri) sempre più aggressivi nel conflitto commerciale con la Cina è esattamente quello di aver mostrato al mondo che del dollaro e degli Stati Uniti forse non ci si può fidare più, o per lo meno non sempre. Uno può anche auspicare che la distruzione di questo equilibrio porti a un futuro equilibrio multipolare e perfino (dai, un po’ di ottimismo) più giusto in termini geopolitici. Ma non s’è mai visto, in fisica come in storia, un passaggio da un equilibrio a un altro senza una fase intermedia di caos.

Ecco, di quello mi preoccupo eccome.


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