Meccanica di un addio è uscito in libreria il 25 ottobre, esattamente un mese fa. Non l’ho visto. Ero ancora a casa a New York, le mie copie mi aspettavano a Milano, mi sono dovuto accontentare di qualche foto e di un complicato miscuglio di emozioni nella preparazione del viaggio.
Pochi giorni dopo ho salutato Irma e i bambini (e sì, significa anche che non li vedo da quasi un mese, mi aspettavo che fosse dura ma non fino a questo punto) e ho cominciato il giro da Palermo: ottanta persone e tutto esaurito, la prima intervista al TG3.
Poi ci sono state Catania, Roma, Napoli, Bari, Firenze, Venezia, Parma, Bologna, di nuovo Palermo, Messina. Tutte occasioni importanti per incontrare librai e lettori – più o meno numerosi secondo le tappe, ma sempre e comunque interessati e interessanti – e accompagnare i primi passi di questo romanzo nel mondo. Ho fatto altre interviste per telefono, in studi radio, davanti alle telecamere e per e-mail – la rassegna stampa ormai sta arrivando a quaranta righe.
Nel frattempo ho anche imparato ad occuparmi dei social media, anche se continuo ad avere la destrezza di uno gnu su un velocipede e un inconfondibile stile che mi fa sembrare più vecchio della mia età di almeno dieci anni, con o senza cravatta che sia. (A proposito: con. Io vado in giro con la cravatta. Mi è piaciuta sempre, non l’ho mai vissuta come una formalità o un’imposizione, per me sta bene sempre anche coi jeans, e con buona pace di due amiche che vorrebbero impedirmelo, intendo continuare).
E ci basterebbe per chiuderla qui, no?
No. Perché pochi giorni fa passo dall’ovvia condizione di esordiente assoluto alla semifinale del Premio Scerbanenco 2024, cosa che già andava molto al di là delle mie aspettative. E però ieri sera ricevo una telefonata e un’email nel momento in cui arrivo in un’orrenda stanza di un’orrenda pensione a cinque minuti a piedi dall’orrendo aeroporto di Reggio Calabria (nota a margine: mettere a posto quello, rimpolpare traghetti e aliscafi e raddoppiare i binari dove serve costerebbe molto, molto meno del famoso ponte, per un’utilità marginale incommensurabilmente maggiore). Un’email e una telefonata che mi dicono che Meccanica di un addio è arrivato in finale, sostenuto dai voti di chi lo ha letto e apprezzato (e magari da quelli di chi mi vuole bene, lettori e non) e dal giudizio critico degli esperti del settore, e che dovrei festeggiare. Considero brevemente l’attrezzatura a disposizione nella stanza – una bottiglietta di acqua frizzante, una cialda per il caffè, una bustina di dolcificante – e decido di rimandare i festeggiamenti.
Alla conferenza stampa di stamattina incontro uno dei giurati. Dice che il romanzo gli è piaciuto, mi stringe la mano, aggiunge “e beh, a questo punto da ora in avanti ti toccherà fare l’autore”. Proprio ieri sera, a Messina, mi avevano chiesto: ma alla voce professione, sulla carta d’identità, cosa ci scrivi? E avevo risposto che la carta d’identità agli italiani residenti all’estero di solito non la fanno, giriamo col passaporto.
Meccanica di un addio compie un mese, oggi. Un mese fa era un altro romanzo, e io ero senza dubbio un’altra persona. Forse domani vado in via Larga e mi faccio fare una carta d’identità.
