Ansia, emigrazione e paternità

Ieri sera abbiamo guardato il dibattito in TV tra i due candidati vice-presidenti, Tim Walz e JD Vance. Un’esperienza fondamentalmente più noiosa rispetto a quello dei rispettivi capi (nessuno ha sostenuto che gli immigrati mangiassero cani e gatti, per esempio) e quindi anche un po’ più digeribile prima di andare a dormire.

Però naturalmente un motivo per svegliarsi alle due del mattino e rimuginare si trova sempre. E quel motivo, stavolta, è stato il momento in cui Walz ha detto che suo figlio è stato testimone di una sparatoria di massa, da ragazzo. L’avversario Vance ha detto un “mi dispiace” di circostanza (d’altra parte, rappresenta un partito che non è disposto a fare l’unica cosa che effettivamente ridurrebbe le sparatorie, cioè stabilire un minimo di buon senso nei controlli e nei limiti per l’acquisto delle armi) e via, come se non fosse un fatto straordinario. Perché non lo è. Dall’inizio del 2024 ad oggi, ci sono state trentasette, sì, trentasette sparatorie a scuola negli Stati Uniti. Rispetto agli anni precedenti, più o meno in linea con le aspettative. Perché esistono delle statistiche e quindi delle aspettative.

Ieri mattina i bambini a scuola avevano avuto un lockdown drill. Così come ogni mese c’è l’esercitazione antincendio, quattro volte l’anno invece si fa l’esercitazione antisparatoria. Imparano a stare zitti e buoni e nascosti e sperare di farcela. E imparano che è normale che sia così, tant’è che neanche me ne hanno parlato: la prima cosa che mi ha raccontato mio figlio uscendo da scuola è che a pranzo c’erano i tacos. Così come imparano, camminando per strada, che qui è normale che non ci si occupi dei senzatetto, che qui la salute non è un diritto universale, che qui le dipendenze chimiche sono un problema di chi ce le ha e non di chi le ha create in nome del profitto.

Stamattina invece un’amica giornalista mi ha chiesto di partecipare a uno studio sulle famiglie italiane all’estero. L’ho fatto volentieri e mi sono ritrovato a rispondere a domande anche difficili sulle differenze sociali e culturali tra l’infanzia dei miei figli e quella che ricordo io a Palermo. Ho risposto che sì, certo, il contesto culturale in cui crescono i bambini qui a New York è stimolante, internazionale, probabilmente molto avvantaggiato per il loro futuro. E allo stesso tempo però che ci sono delle caratteristiche sociali e culturali che considero assolutamente aberranti.

È abbastanza evidente che non esiste un luogo ideale per crescere, se non il luogo metaforico dell’affetto e dell’accettazione di una famiglia (comunque essa sia costituita). Possiamo illuderci, come Orazio, che l’altrove sia meglio del qui-e-ora. Vista dall’Italia, l’infanzia newyorkese dei miei figli è più entusiasmante di un film. Vista da qui, l’infanzia italiana dei figli dei miei amici è più serena di un cartone animato.

In uno dei dialoghi che ho scelto di non scrivere per intero, in “Meccanica di un addio”, ma di lasciare all’immaginazione del lettore, due personaggi si chiedono l’un l’altra “come fa uno svizzero a sopportare il Brasile? Come fa una brasiliana a sopportare la Svizzera?” Nella loro mutua incomprensione ho provato a distillare un pezzetto della mia complicata identità di italiano all’estero: integrato nella cultura locale (mi è successo in Francia, in Brasile e in una certa misura ormai anche qui a New York) ma senza mai perdere l’alterità; incapace di sentirmi a casa in Italia, ma senza mai perdere le radici.

Chissà che confusione sto creando nelle teste dei miei figli.


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